Tutto l’amore del mondo
I malesseri di quei giorni. Certo, il mio corpo stava comunicando con me. Se avessi saputo ascoltarmi già in quel periodo, forse non sarei arrivata a quel punto. D’altronde alcune cose da sistemare nella mia vita c’erano, e lui chissà da quanto tempo era lì. Un 4° stadio B. Un tumore allo stato avanzato, non operabile poiché del sangue, che il mio corpo mi aveva iniziato a comunicare sotto il periodo di Natale. La dottoressa mi disse che nella sfortuna ero stata fortunata, perché c’era un’alta percentuale di guarigione per i linfomi di Hodgkin. La diagnosi completa mi venne data a febbraio, era il 2015, e l’infermiera mi disse che per l’estate sarei stata bene, che la cicatrice della biopsia sul collo non si sarebbe più vista e che sarei potuta andare al mare.
A 24 anni avevo frequentato decisamente poco gli ospedali, ero una di quelle che si impressionavano facilmente, tanto che per fare le analisi per i primi periodi le infermiere dovevano tenermi in quattro, ripetendomi che di quel passo si sarebbero fatte aumentare lo stipendio. Ma la paura delle analisi fu un po’ come la caduta dei capelli, quando la dottoressa mi disse che sarebbe stato l’ultimo dei miei problemi. E così fu.
Quell’estate non tornai al mare, perché la chemio non aveva dato gli effetti sperati. Dimagrita, col viso gonfio, senza capelli ne forze e con tutti gli acciacchi del caso – tutti quelli che possono venire in mente – non potevo fare granché. A giugno iniziai un altro tipo di chemio, che il primario disse essere molto, molto, molto più forte dell’altra. E aveva ragione. Mi ritrovai a dover stare chiusa tra casa e ospedale, non poter prendere il sole, sterilizzare tutto ciò che usavo, non stare a contatto con persone esterne alla famiglia se non con attenzione e portando la mascherina (che ancora non andava di moda).
Ricordo che nella mia intimità piangevo, la mia pazienza sembrava essere finita, otto ore di chemio più volte alla settimana erano interminabili e quando tornavo a casa stavo ancora più male. Eppure non mi sono mai chiesta perché proprio a me. Anzi, in quel periodo ero così attaccata alla vita che a distanza di tempo, quando vidi un video che feci in quel periodo col mio compagno, quasi non mi riconobbi: nonostante tutto emanavo una voglia di vivere, di esserci, di andare avanti, come mai prima. I miei sorrisi erano belli, limpidi, autentici. Ricordo anche che feci una lista delle cose da fare una volta terminata quella brutta parentesi della mia vita. Probabilmente lo feci per darmi forza, non so.
L’estate passò. Di cose ne successero tante, ma la prova più difficile doveva ancora arrivare. Mi dissero che se avessimo continuato con quelle chemio la tossicità elevata nel mio corpo avrebbe potuto essere fatale, così optarono per il trapianto delle cellule staminali. Senza dubbio il periodo più difficile della mia vita, a cui seguì poi la radioterapia.
Mi ricoverarono a fine novembre e quel giorno lo ricordo ancora con tanta tristezza, perché era il compleanno della mia amata nipotina e non potemmo festeggiare tutti insieme in famiglia. Passai 40 giorni in camera sterile. La finestra di quella piccola stanza era piuttosto grande, ma si affacciava su un muro dell’altra ala dell’edificio ed era tenuta chiusa da un lucchetto, quasi a ricordarmi che non dovevo avere nessun contatto col mondo esterno. Il trapianto vero e proprio mi venne fatto il giorno dell’8 dicembre. Furono giorni difficili, passai buona parte di quel periodo attaccata all’alimentazione artificiale e ci fu un momento in particolare in cui mi sentii privata della mia dignità di persona.
Ricordo il giorno in cui mi dissero che finalmente potevo tornare a casa. Era il giorno di capodanno e quando chiamai al cellulare il mio compagno per dargli la notizia ci commuovemmo entrambi dalla felicità.
Quando uscii non ero in grado di camminare, ci vollero mesi per riprendermi, ma sentivo ogni giorno di più che i dolori si alleviavano e la forza tornava, ed era bellissimo.
Ricordo quando andai a ritirare le risposte della tac dopo il trapianto e la radioterapia: mi accompagnò mio fratello, l’ansia di aprire quella busta era tanta, ma finalmente l’esito era negativo! Ero talmente felice che tengo ancora sul cellulare la foto del referto del prima e del dopo: il mio corpo con macchie nere su petto, cuore e polmoni e poi il mio corpo senza più traccia, pulito. Quando la dottoressa mi disse che ci saremmo viste soltanto una volta al mese le dissi incredula “Una volta al mese?!”. Riconquistare le normali attività di tutti i giorni erano vittorie enormi, uscire a prendere un caffè con le amiche, tornare ad usare il phon per i capelli… Da quel periodo in poi feci tante e più delle cose che avevo sognato di fare quando ero in cura.
A distanza di tempo, se me lo chiedo, io non so proprio come abbia fatto ad affrontare questo percorso. Certo è che abbiamo molta più forza di quanto crediamo. E so di certo anche che la vicinanza della mia famiglia, del mio compagno e dei miei amici è stata fondamentale. Per questo sono a loro infinitamente riconoscente.
PARTE 2
La paura di morire mi fece attaccare a qualsiasi cosa: pregai come non avevo mai fatto, studiai tanto, ogni giorno mi preparavo litri di succhi di verdure, cambiai alimentazione e mi avvicinai alle pratiche olistiche.
Quando nell’aprile del 2016 mi confermarono la remissione dalla malattia e col tempo ripresi le forze, sentivo ancora di più che quell’esperienza non era successa a me per caso. Dovevo prendermi cura di me, ritrovarmi. Qualcuno mi disse che il termine “remissione” vuol dire “tornare alla propria missione”. La missione della propria Anima su questa Terra.
Dedicai allora il mio tempo alla conoscenza e all’esperienza di pratiche olistiche. Conobbi Roberta, che subito si mise a completa disposizione per guidarmi nella mia riconnessione con lo spirito. Furono tante le pratiche e le esperienze che provai con lei e col tempo avrei capito che tutto ciò che mi stava arrivando aveva un filo conduttore.
È difficile spiegare ciò che vivevo durante le nostre pratiche. Ogni volta apprendevo, arrivavano messaggi, risposte, sicurezze. Allora sapevo che quella era la strada da percorrere. Una strada di ricerca interiore continua.
Col passare del tempo il desiderio di diventare madre si fece sentire. La relazione con il mio compagno era stabile e avevo raggiunto l’equilibrio che era mancato nella mia vita. Ma prima di iniziare le chemio i dottori non mi fecero fare la conservazione degli ovuli, così finite le cure il ciclo non tornò. Sentimmo tanti pareri, ma tutti confermarono la mia sterilità.
Passarono giorni, mesi, anni e il desiderio di dare la vita, di dare tutto l’amore che sentivo, era davvero forte. Mi chiedevo: devo avere dei figli in questa vita? E se non devo, cosa farò? Come sarà il nostro futuro? A questa domanda facevo fatica a trovare una risposta, o forse ne avevo paura. Ero certa che avrei messo su famiglia da molto giovane, seguendo l’esempio dei miei genitori. Creare una famiglia, avere dei figli, era un valore per me importantissimo. Pensare che il mio futuro potesse essere diverso da così era una cosa che facevo fatica ad accettare.
Continuai con le pratiche insieme a Roberta ed altri maestri. Insieme a lei ci dedicammo a tante attività, al risveglio del sacro femminile, alle memorie antiche, alle meditazioni, danze, canti medicina. In quel periodo feci delle esperienze che difficilmente scorderò nella mia vita. Le immagini e i messaggi che arrivavano durante le meditazioni erano chiare, ma ancora non riuscivo a comprenderle del tutto. Anche stavolta, solo con il tempo avrei capito.
Una mattina mi svegliai e andando in bagno scoprii di avere il ciclo: dopo anni qualcosa dentro di me si era risvegliato. Ricordo la corsa in ospedale per controllare che si trattasse proprio di questo, e la felicità che già provavo in macchina sentendo i piccoli dolori provenire delle mie ovaie: mi sentivo di nuovo donna!
Passò ancora del tempo, la sterilità era comunque confermata e il disagio per questa situazione era sempre più forte. A distanza di anni denunciai l’ospedale, nella speranza che altre ragazze non dovessero mai trovarsi in una situazione simile alla mia. Girammo diversi ospedali per sentire i pareri di più dottori, ma tutti concordavano sul fatto che senza ovociti non sarei potuta rimanere incinta. A quel punto capimmo che le soluzioni potevano essere due: adottare un bambino o ricorrere alla fecondazione assistita. La mia propensione verso l’aiuto agli altri mi diceva di andare dritta verso l’adozione. Ma non era un’opzione su cui eravamo eravamo d’accordo entrambi. La fecondazione assistita d’altronde non era proprio nella mia etica. Ma la decisione andava presa in due e ricordo ancora quella volta che dissi a Roberta: “Stiamo procedendo con la pma, so che non voglio farlo, ma qualcosa mi spinge ad andare avanti su questa strada”. È strano quanto fossi convinta di non scegliere quella via per diventare madre e al tempo stesso quanto fossi sicura di dover andare avanti proprio in quel percorso.
Andammo a Bologna, Pesaro e vari altri ospedali per preparare tutte le visite necessarie, nonostante mi dissero che data la mia condizione le probabilità di riuscita della fecondazione erano quasi nulle. Fu all’ultima visita, prima di andare a Bologna per procedere con la pma, che feci l’ecografia insieme alla mia amica ginecologa. Vidi una piccola pallina sullo schermo, dentro al mio utero. Lei si zittì e i miei miei pensieri subito partirono per la tangente. In preda alle mie ansie pensai: “Oddio cos’è quella cosa? Ditemi che sto bene”. “Sei incinta!” disse la dottoressa, più incredula di me.
Ero incinta da un mese e mezzo. Quel piccolo pallino di pochi millimetri era mia figlia, che dopo sette lunghi anni di attesa si presentò così, naturalmente, nel mio utero, sfidando tutte le regole della medicina.
Il mio sentire, ovviamente, non aveva sbagliato. Dovevo andare avanti in ciò che sentivo, e sarebbe stato ciò che doveva essere.
Ricordo quella sera in cui andai a casa di Roberta per dare la notizia di questo grande miracolo. Mi offrì una tisana mentre le dissi: “Devo dirti una cosa.” Lei si girò, mi guardò e mi disse “Sei incinta”. Non dimenticherò mai quell’abbraccio che ci demmo commosse.
In tutta questa esperienza, le persone che ho incontrato nel mio cammino di risveglio hanno sempre sostenuto che grazie a Madre Natura avrei potuto realizzare questo mio grande desiderio, questo miracolo. A loro devo molto. Tutto.
Furono una gravidanza ed un parto a dir poco stupendi. Ricordo l’emozione costante nel sapere di avere dentro di me due cuori che battevano insieme: il mio e quello della mia bambina. Il periodo più bello della mia vita.
Il 29 marzo 2022 Aurora venne alla luce donandomi tutte le conferme che i miracoli accadono, e siamo noi a farli accadere. Oggi Aurora ha quasi due anni ed è come la immaginavo. Semplicemente stupenda, dolce, sempre sorridente, dall’aspetto di un angelo, che mi dà e a cui do tutto l’amore del mondo.
A Roberta: Grazie per avermi ascoltata ed avermi imparato ad ascoltarmi, grazie per avermi imparato ad amare e ad amarmi, grazie perché ci sei <3
Cristina Bracalente
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